La cucina Palermitana dai dolci allo street food.

Partiamo da li cosi duci di Palermo

“Ma tu lo sai cos’è l’inferno? E’ solo Palermo senza Pasticcerie”. Le parole tratte dal libro “La lunga vita di Marianna Ucria” di Dacia Maraini ci spiega il rapporto indissolubile ed unico di Palermo con i suoi dolci. Secondo la tradizione le ricette di cassate, cannoli, e altre delizie nascono all’interno dei conventi siciliani.

La cassata siciliana:
Un posto d’onore spetta alla “cassata siciliana” torta di soaeve eleganza e sfiziosa bontà: tripudio di colori, sapori e sfarzo di canditi. Attraverso questo dolce è possibile ripercorrere la storia dei popoli che hanno vissuto sull’isola nei secoli. Il nome cassata si riferisce alla sua forma tonda ed è di origine arabo “qasat” significa ciotola rotonda. L’ingrediente principale è la ricotta, unico ingrediente locale che si produceva sull’isola fin dalla preistoria. La prima cassata era quella araba che oggi chiamiamo cassata al forno. La più famosa casata è quella decorata con pasta di mandorle, ingrediente aggiunto in epoca normanna mentre il cioccolato e pan di Spagna vennero aggiunti in epoca spagnola. Infine nel 1870, il pasticciere e Cavalier Salvatore Gulì presentò la cassata con aggiunta di frutta candita ad una fiera internazionale. La cassata che oggi trovate in tutte le pasticcerie di Palermo.
Il cannolo :
A pari merito con la cassata altro dolce siciliano più famoso al mondo è il cannolo. Il suo nome deriva dalla canna attorno al quale si avvolge l’impasto della cialda prima di friggerlo. Al cannolo è legata una leggenda un po’ hot. Si racconta che nell’harem di un principe arabo, a Calatanissetta, alcune delle sue concubine prepararono un dolce a forma di cilindro piena di ricotta, mandorle e miele. La forma era stata pensata per onorare le doti sessuali del principe. Secondo un’altra più casta leggenda, le suore di un convento nisseno inventarono un nuovo tipo di pasta fatta con una conchiglia, chiamata “scorcia” e un ripieno di ricotta, zucchero, cioccolato e mandorle per celebrare il Carnevale. Concubine o suore, è certo che i cannoli furono prodotti per la prima volta al tempo della dominazione araba della Sicilia, tra l’827 e il 1091, e che molti degli ingredienti utilizzati erano, in realtà di origine araba.

 

 

Street food – cibo di strada palermitano.

Palermo è la quinta città nella classifica mondiale per lo street food secondo il sito virtualtourist.com. Lo street food o semplicemente il cibo di strada che fin da piccoli tutti i palermitani mangiano ha un infinità varietà dai più famosi sfincione, pane panelle e crocchè, pane ca meusa , arancina fino ai meno conosciti quarume, frittola, stigghiola, “musso e carcagnolo”, rscatura .

“U sfinciune” – lo sfincione.

“Bello è !…uora uora u sfurnavu, va tastalu! Scarsu r’ogghiu e chinu i pruvulazzu!” . “Buono è! Ora ora l’ho sfornato, assaggialo! Ha poco olio ed è pieno di polvere!” Questo il grido o abbanniata dei venditori di sfincione . Lo sfincione è uno dei cibi di strada palermitani di cui puoi riconoscere non solo l’odore ma anche il rumore. Infatti, in giro per i mercati o per le strade del centro storico potrete sentire il profumo della cipolla e il rumore dell’ abbanniata del venditore di sfincione. Ma che cos’e’ lo sfincione? Lo sfincione è una focaccia di grande spessore molto simile alla pizza, che nell’antichità sostituiva il pane durante le feste. E’ preparato con cipolle, acciughe, pomodoro, origano, pangrattato e pezzetti di caciocavallo.

“Panelle e cazzili” – panelle e crocchè.

Non c’è palermitano che non abbia mai mangiato pane panelle e crocchè: al meracto, in spaiggia Mondello o all’uscita da scuola, per colazione per pranzo o per cena . Infrasettimanale o domenicale ad ogni modo, fin da bambini quando mamma ti diceva “ oggi a pranzo panelle e crocchè “ era già festa. Le panelle sono frittelle di farina di ceci, cotte in olio bollente. Nella maggior parte dei casi il “panellaro” vi offrirà il panino con le panelle e le crocchè. Le crocchè, dette anche “cazzilli”, sono crocchette di patate di forma ovale e allungata e condite con il prezzemolo. Vengono fritte nello stesso olio caldo delle panelle. Si possono consumare da sole nel “coppino” o nel panino.

Arancina…. si, perchè a Palermo l’arancina è “fimmina”

Se vuoi sapere da quale parte dell’isola un siciliano proviene basta chiedere se dice arancino o arancina. Nella Sicilia orientale e nel resto d’Italia si dice arancino. Ma non a Palermo, dove è l’unico posto in cui è chiamata arancina perché l’origine del nome è spiegato dalla somiglianza dell’arancina con l’arancia data la forma. Storicamente, sembra infatti che l’arancina nasca come involucro protettivo per conservare il riso nelle lunghe spedizioni militari, dando vita a piccole palle molto simili all’agrume. L’arancina è la regina della rosticceria palermitana. E’ una palla di riso, trattato con zafferano e altre spezie, fritta e ripiena di diverse farciture. Le più comuni sono “a carne” cioè al ragù di carne o “a burro” cioè con besciamella, prosciutto, mozzarella noce moscata e per concludere calia e semenza che i palermitani chimano “u passa tempu” .

“U pane ca meusa” -Il pane ca meusa di origine ebraica.

Il famoso pane con la milza è cibo di strada che troverete solo a Palermo. E’ una specialità risalente al Medioevo e legata all’antica comunità ebraica che viveva a Palermo. Si narra che gli ebrei non potendo mangiare questi rimasugli di carne perché vietato dalla loro religione li rivendevano ai palermitani cristiani. In italiano milza è una pagnotta al sesamo detta “vastedda” ed imbottita con pezzetti di milza, polmone e trachea di vitello precotti e fatti rosolare a fuoco lento nella sugna, in tegami di rame. Può essere servito “schiettu”, cioè con solo uno spruzzo di limone, o maritatu, ovvero accompagnato da ricotta o caciocavallo.

 

La cucina palermitana dalle tavole dei nobili a quelle dei poveri.

La cucina palermitana ha origini povere, spesso i piatti più famosi come la pasta con le sarde o le sarde a beccafico nacquero dalla dall’idea dei poveri che copiavano e rivisitavano a loro modo i piatti che i monsù cuochi della nobiltà cucinavano nei palazzi delle famiglie dei gattopardi, i nobili siciliani.

I piatti della tradizione palermitana

Sarde a “beccafico”: Si racconta che i nobili andavano a caccia di piccoli uccelli chiamati beccafichi. I cuochi dei nobili li spennavano, li disossavano e mettevano da parte le viscere e interiora . Farcivano con queste interiora e lasciavano il codino dell’uccellino in bella vsita. I poveri per copiare i nobili prendevano le sarde puzzolenti, pesce costava poco e invece di condirle di interiora, li condivano con mollica di pane, e con un poco d’ arancia cercavano di non far sentire il puzzo del pesce puzzolente e infine aggiungevano i pinoli. In tutta la cucina popolare il pinolo è presente perchè utile contro l’intossicazione alimentare, e quindi nasce la sarda a beccafico.
Le sarde allinguate: Durante il periodo spagnolo i nobili mangiavano il lenguado. Il lenguado in spagnolo è la sogliola, per cui a Palermo al posto delle sogliole si usarono le sarde. Venivano aperte ed ecco le sarde al lenguado cioè “allinguata”, ma non ci si potevano mettere i pinoli, allora bagnetto d’aceto, ed avevano risolto il problema.
La Pasta con le sarde: La leggenda racconta che il cuoco dell’esercito di Eufemio da Messina, dovendo sfamare i soldati affamati fu costretto ad utilizzare gli ingredienti a disposizione: quelli forniti dalla Sicilia, come appunto la pasta, le sarde ed il finocchietto, e quelli forniti dagli stessi arabi, come lo zafferano. E’ un vero peccato non conoscere il nome di questo cuoco brillante. Magari non avrebbe mai vinto Masterchef, ma ha sicuramente fatto la storia.

La caponata : il termine caponata da “capone” fa riferimento all’omonimo pesce pregiato che nel 1700 veniva preparato in agrodolce per aristocratici e classi agiate. I più poveri sostituirono il però al pesce con le meno costose melanzane.

Cacio all’argentiera: Si racconta la storia un orafo che, purtroppo, era caduto in bassa fortuna. Dovendo stringere la cinghia e non potendo più comprare cibo prelibato nè preparare manicaretti raffinati, decise di inventare questa ricetta per non far vedere agli altri le sue difficoltà economiche. Il cacio, formaggio salato e stagionato, era facilmente acquistabile anche con pochi spicci. Il caciocavallo, cotto, sprigiona un profumo buonissimo capace di soddisfare anche i palati più esigenti.

 

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